Libertario o conservatore? Profilo politico di Borges

Federico Sesia
L’itinerario sociopolitico dell’enigma Borges
IN ANTEPRIMA

 

1. I primi anni

 

Massimo rappresentante della letteratura ispano-americana contemporanea, nonché padre del realismo magico, Jorge Luis Borges (1899 – 1986) si è lasciato coinvolgere dalle intricate vicende politiche dell’Argentina a lui coeve. Alcune suggestioni gli derivarono dal padre Jorge Guillermo Borges (1874 – 1938), anarchico spenceriano da cui il nostro assorbì l’individualismo, il culto della libertà, lo scetticismo e il sospetto nei confronti dello Stato: si tratta di temi ricorrenti nel pensiero borgiano, che lo accompagneranno per tutta la vita. Negli anni della gioventù è inoltre rilevabile in Borges un nazionalismo progressista, difensore dell’elemento criollo del paese e ostile al nazionalismo delle élite argentine dell’epoca:

 

«È il periodo “criollista” del giovane Borges, quando la nuova generazione ultraista elabora e diffonde l’idea di un nazionalismo “popolare”, autentico e ordinario, opposto a quello elitario e celebrativo degli intellettuali del Centenario […], e sostiene, insieme alle istanze di modernità e in contraddizione solo apparente con queste, l’esigenza, rafforzata dai profondi cambiamenti legati ai massicci flussi migratori, di un rinnovato radicamento nell’elemento tradizionale e autoctono, criollo appunto».[1]

 

Il criollismo borgiano traspare in particolare dai saggi giovanili La misura della mia speranza (1926), L’idioma degli argentini (1928) e Il prisma e lo specchio (1929), che da adulto ripudierà. Ad esempio nel primo dei tre testi citati

 

«Siamo dei dimenticati da Dio, il nostro cuore non sposa nessuna fede, ma crediamo, questo sì, in quattro cose: che la pampa sia un sacrario, che l’abitante originario fosse molto virile, che i malviventi siano coraggiosi, che i sobborghi siano dolci e generosi. Sono quattro punti cardinali, questi che indico, non luci sperdute. […] Dell’instancabile ricchezza del mondo, ci appartengono soltanto i sobborghi e la pampa.»[2]

 

Oltre alla nota attività letteraria, Borges fin dagli anni della giovinezza non ha lesinato prese di posizione esplicite inerenti a questioni politiche: già nel 1927 figura tra i creatori di un comitato di giovani intellettuali che sostenne la rielezione del presidente Hipólito Yrigoyen (1852 – 1933), esponente dell’Unión Civica Radical. Del resto, la simpatia di Borges per i radicali è un’eredità di famiglia, essendo suo bisnonno Manuel Isidoro Suárez (1799 – 1846) amico di uno dei fondatori del partito. In un contesto caratterizzato dall’ascesa della destra nazionalista, Borges prese posizione in favore di Yrigoyen:

 

«Di fronte a una ripresa del nazionalismo di destra, e della storia revisionista che definiva Rosas[3] come un difensore del criollo contro lo straniero, Borges insieme ad un variegato gruppo di importanti intellettuali che includeva Marechal, Macedonio Fernández, Roberto Arlt, Xul Solar […] fondarono il Comitato di giovani intellettuali per Yrigoyen. Borges, seguendo la tradizione familiare, è sempre stato fieramente leale al carismatico e populista leader del Partito radicale».[4]

 

La crisi del ’29 favorì un golpe che detronizzò il presidente, di ispirazione nazionalista e corporativa. Negli anni Trenta l’Argentina, come molti paesi europei e latinoamericani, stava infatti vivendo il riflusso di un nazionalismo radicale, con tinte xenofobe, corporative e qualche simpatia per il fascismo. Questo clima politico trovò in Borges uno dei suoi principali detrattori:

 

«Il suo crescente classicismo lo alienò dall’avanguardia, mentre disapprovava il nazionalismo, l’anglofobia e il razzismo che si stavano sviluppando lungo il decennio».[5]

 

È proprio il golpe del 1930 a favorire in Borges un allontanamento dal nazionalismo criollista, oltre che una svolta nella sua produzione letteraria abbandonando alcuni temi:

 

«Dal punto di vista della cronologia narrativa è probabile che sia a partire dal colpo di Stato contro Yrigoyen che Borges inizi a leggere il suo progetto poetico come un fallimento, opponendosi in questo modo alla valutazione dei suoi ammiratori degli anni Venti, molti dei quali appoggiarono il golpe. […] È questo il suo primo distanziamento dal nazionalismo, agli inizi degli anni Trenta. Una rottura che non viene solo dalla precedente esaltazione di Yrigoyen; deluso o no dalla sua seconda presidenza, il fatto di veder canalizzata una parte degli intellettuali nazionalisti verso una certa azione politica determina l’inizio del distanziamento. Bisogna arrendersi all’evidenza: quelli che esaltano la sua poesia perché contiene un’essenza argentina e quelli che rigettano la sua prosa in quanto anti argentina […] appoggiarono il colpo di Stato e l’imposizione di uno Stato antidemocratico e repressivo».[6]

 

 

 

2. Anti-peronismo e individualismo

 

Oltre al golpe del 1930, altro spartiacque nella sua vita e nel suo pensiero è l’ascesa del colonello Juan Domingo Perón (1895 – 1974) nel 1946. Nel peronismo Borges vide il trionfo di quelle posizioni che aveva avversato negli anni Trenta, non facendo mai segreto della sua opposizione: non fu infatti casuale la perdita dell’incarico di assistente in una biblioteca rionale, dettata proprio dalla sua opposizione al colonnello[7]. Verrà poi nominato rettore della Biblioteca Nacional di Buenos Aires, ma solo in seguito a quella Revolución libertadora (1955) che allontanò per qualche tempo il peronismo dalla stanza dei bottoni[8]. L’anti-peronismo del nostro è testimoniato anche da altri episodi della sua vita: ad esempio nel 1950 fu eletto presidente della Sociedad Argentina de Escritores, bastione dell’opposizione, ma che fu sciolta dalle autorità nel 1952, di fronte al rifiuto di Borges di farla aderire al lutto nazionale proclamato per la morte di Eva Perón (1919 – 1952). Si può dire che questi risentisse appieno del clima argentino del periodo:

 

«L’ascesa al potere di Perón nel 1946 ha seminato zizzania nel mondo letterario e artistico argentino. Anche se non era un’attivista politico, Borges ha mantenuto una posizione forte contro il peronismo, il fascismo, il comunismo e l’antisemitismo, tutte posizioni che avevano un consenso considerevole in Argentina. La sua opposizione a Peron gli sarebbe costata cara, e per anni Borges ha sopportato il disprezzo della sinistra latino-americana per la sua opposizione ai regimi comunisti come quello di Castro a Cuba. Questo potrebbe essergli costato il Premio Nobel».[9]

 

L’anti-peronismo borgiano, mai del tutto sopito, riprese a tambur battente nella prima metà degli anni Settanta: il presidente Héctor Cámpora (1909 – 1980) aveva permesso a Perón di tornare dall’esilio spagnolo facendolo trionfare alle elezioni del 1974, e per protesta Borges si dimise dal rettorato, definendo gli elettori del colonnello “sei milioni di idioti”. La sua raccolta di poesie La rosa profonda (1975) riflette anche quest’inquietudine politica[10]. Nei confronti del peronismo Borges non ha mai tentato alcuna mediazione, né ha mai fatto la benché minima concessione:

 

«Il peronismo è la pietra di paragone nelle convinzioni politiche di Borges: per lui non ci sono sfumature nella condanna assoluta del regime, né palliativi o giustificazioni per quello che giudica macchiato dalla bassezza morale, dalla corruzione e dalla barbara stupidità. […] Per Borges il peronismo è composto da una razza di guappi, di orilleros, di compadritos (questi mitici personaggi che aiutò a delineare letterariamente) […]».[11]

 

Del resto, l’opposizione alla prassi e all’ideologia di Perón deriva da uno dei motivi fondamentali del suo pensiero politico, ovvero quel radicale individualismo vicino alle suggestioni libertarie ereditato dal padre. Fu lui stesso a dire che

 

«Sono fondamentalmente anarchico. Sono per il minimo dello Stato e il massimo dell’individuo. Se serve un governo, lo desidero planetario. Però è un’utopia, chiaro. Non ci stiamo muovendo in questa direzione. Certamente ho delle speranze, ma per i prossimi mille anni».[12]

 

Di fronte alle tendenze a fondere il singolo nel collettivo, a sublimare la persona in quello che Mario Vargas Llosa definisce “il richiamo della tribù”[13], Borges riafferma il valore dell’individuo e della sua indipendenza[14]:

 

«Il più urgente dei problemi della nostra epoca (già denunciato con profetica lucidità dal quasi dimenticato Spencer) è la graduale intromissione dello Stato negli atti dell’individuo: nella lotta contro questo male, i cui nomi sono comunismo e nazismo, l’individualismo argentino, forse finora inutile o dannoso, troverebbe la sua giustificazione e il suo compito. […] Il nazionalismo vuole ammaliarci con la visione di uno Stato infinitamente molesto; codesta utopia, una volta realizzata sulla terra, avrebbe la virtù provvidenziale di far sì che tutti desiderassero, e finalmente costruissero, la sua antitesi».[15]

 

Concetti del resto ripetuti più volte nel corso della sua esistenza, come in un’intervista con Antonio Carrizo del 1982:

 

«[…] il collettivo non è reale. L’individuo lo è. O comunque uno crede che lo sia. Anche se io non so se in questo momento sono tutto il mio passato. Però questo è ad ogni modo più reale di dire: io appartengo a questa classe sociale, a quel paese…queste sono convenzioni, che possono cambiare. Dipendono dalla politica, dalla geografia politica, che è del tutto falsa».[16]

 

Dalla sottomissione dell’individuo allo Stato, dall’intromissione di quest’ultimo nella vita del cittadino, secondo Borges discenderebbero i tre mali che affliggevano il mondo all’epoca: il nazionalismo, il comunismo e il fascismo. Borges infatti vide nel fascismo e nel nazismo nient’altro che la propaggine estrema del nazionalismo. In particolare, la sua ostilità alla Germania nazista emerge dai racconti Deutsches Requiem e Il miracolo segreto contenuti rispettivamente nelle raccolte L’Aleph (1949) e Finzioni (1944), oltre che dai suoi articoli sul tema, pubblicati tra gli anni Trenta e Quaranta nella rivista Sur[17]. Ad esempio:

 

«Precisamente, io di Hitler aborro la sua mancanza di fiducia nel popolo tedesco, perché crede che per liberarsi del 1918, non ci sia altra pedagogia che la barbarie, né miglior stimolo che i campi di concentramento. […] Se avessi il tragico onore di essere tedesco, non mi rassegnerei a sacrificare alla mera efficacia militare l’intelligenza e la probità della mia patria; […]. È possibile che una sconfitta tedesca sia la rovina della Germania; è indiscutibile che la sua vittoria sarebbe la rovina e l’avvilimento del pianeta. Non mi riferisco all’immaginario pericolo di un’avventura coloniale sudamericana; penso agli imitatori autoctoni, ai superuomini caserecci, che il caso inesorabile ci darebbe. Spero che negli anni vedremo l’avventuroso annientamento di Adolf Hitler, figlio atroce di Versailles».[18]

 

«Mentalmente, il nazismo non è altra cosa se non l’esacerbazione di un pregiudizio che affligge tutti gli uomini: la certezza della superiorità della propria patria, della propria lingua, della propria religione, del proprio sangue. Dilatata dalla retorica, aggravata dal fervore o dissimulata dall’’ironia, questa candida convinzione è uno dei temi tradizionali della letteratura. Non meno candido di questo tema sarebbe qualunque proposito di abolirlo. Non bisogna dimenticare che una setta perversa ha contaminato queste antiche e innocenti tenerezze e che frequentarle adesso sarebbe consentire (o proporre) una complicità. Manco di qualsiasi vocazione all’eroismo, di qualunque facoltà politica, però dal 1939 ho cercato di non scrivere una linea che permetta questa confusione. La mia vita di uomo è un’imperdonabile serie di meschinità; voglio che la mia vita di scrittore sia un po’ più degna».[19]

 

Anche nel racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, contenuto in Finzioni, compare una critica dei totalitarismi, oltre che quel radicato scetticismo che risulta essere uno dei temi del pensiero borgiano:

 

«Negli anni Trenta ha visto l’ascesa del riduttivo semplicismo delle filosofie politiche. Erano, naturalmente, opera di uomini, così come Tlön è il prodotto dell’intelligenza umana, erano chiare e rendevano il mondo comprensibile. Questa era la loro fatale attrattività. Di fronte alle ideologie totalitarie, come quella di Tlön, del nazismo e del comunismo che subordinano l’individuo alle masse, il narratore in prima persona resiste riaffermando la sua identità che si era progressivamente eclissata nella storia. Celebra il dubbio – che per Borges è l’essenza dell’intelligenza – e le diverse lingue, con le loro insoddisfacenti e disordinate idiosincrasie. […] Questo è il suo modo di tenere a bada la barbarie del totalitarismo».[20]

 

La contrarietà di Borges al nazionalismo si è spinta fino ad esprimere opinioni che lo discostarono dalla maggior parte dell’opinione pubblica argentina. Ed è precisamente quanto accaduto in occasione della Guerra delle Falkland/Malvinas (1982), verso la quale il nostro mostrò scetticismo e contrarietà nonostante quasi tutto il paese ritenesse le isole parte integrante della nazione e giustificasse il conflitto di conseguenza. Nella poesia Juan López y John Ward, della raccolta Los conjurados (1985), traspare il senso di assurdità nei confronti di una guerra ritenuta inutile e dannosa, considerazioni espresse anche all’amico Adolfo Bioy Casares (1914 – 1999):

 

«Su La Nación si lamentano che i nostri sforzi per il recupero delle Malvinas non abbiano sufficiente appoggio popolare. Forse deplorano che ancora non abbiano incendiato Harrods e l’ambasciata d’Inghilterra. A questa gente bisognerebbe dire “Perfetto, che ci ridiano le Malvinas e noi ci impegneremo a ridare il paese agli indios, o perlomeno agli spagnoli”».[21]

 

Altra faccia della medaglia della sua opposizione al nazionalismo è l’adesione al cosmopolitismo, come del resto emerge dalla sua produzione letteraria, che mostra una profonda conoscenza di numerosi paesi e culture. Lui stesso disse che

 

«Più tradizioni abbiamo, meglio è; quanto più dobbiamo ad altri paesi, senza escludere la Spagna, meglio è. Perché non accettare tutti i paesi e tutte le culture, nei limiti del possibile; perché non puntare ad essere cosmopoliti. Non c’è nessuna ragione per pensarla diversamente».[22]

 

 

 

3. Libertario o conservatore?

 

A questo punto potrebbero stonare alcune prese di posizione politiche che Borges ha adottato nel corso della sua vita. Il suo sostegno alla Libertadora non venne messo parzialmente in discussione neppure quando si scoprirono casi di fucilazione e tortura di oppositori. Nel 1960 si affiliò al Partido conservador[23], come da lui stesso dichiarato nella prefazione de Il manoscritto di Brodie (1970):

 

«Le mie opinioni in materia politica sono abbastanza note; mi sono iscritto al partito conservatore, il che è una forma di scetticismo, e nessuno mi ha mai chiamato comunista, nazionalista, antisemita, partigiano di questo bandito o di quel tiranno. Credo che un giorno meriteremo che non ci siano governi. Non ho mai nascosto le mie opinioni, nemmeno negli anni difficili; ma neppure ho permesso che interferissero nella mia attività letteraria, fuorché una volta, spinto dall’esaltazione della Guerra dei Sei giorni».[24]

 

Nel 1976 si recò a Santiago, dove era stato invitato dall’Università del Cile per ricevere una laurea honoris causa, e in quell’occasione incontrò il generale Augusto Pinochet (1915 – 2006), sul cui regime pronunciò parole di indubbio sostegno. L’aver accolto l’invito gli fece perdere il Nobel per la letteratura, che probabilmente avrebbe vinto se non fosse partito. Inoltre, fatto ancor più impattante, nel 1976 sostenne apertamente il Proceso de Reorganización Nacional, il governo militare retto dal generale Jorge Rafael Videla (1925 – 2013) e responsabile di sistematiche violazioni dei diritti umani[25]. In un pranzo con Videla alla Casa Rosada definì “caballeros” gli esponenti della giunta. Non mancarono neppure gli elogi a Francisco Franco (1892 – 1975), sconfessando il suo passato sostegno ai repubblicani[26]. Si segnalano poi alcune boutades dal retrogusto reazionario, come quando propose la pena capitale per Regis Débray[27] e affermò di ritenerne in generale lecito il ricorso. Insomma vi è una qualche postura conservatrice in Borges, per quanto meno marcata del suo individualismo[28]:

 

«[…] c’è un aspetto conservatore nel pensiero borgiano. In questo senso, si può vedere in Borges quello che alcuni filosofi politici, come Michael Oakeshot e Roger Scruton, denominano “l’attitudine conservatrice”, un’attitudine che preferisce “il limitato all’illimitato”, i valori provati alla novità per la novità; un’attitudine, insomma, che ha grande stima per la tradizione».[29]

 

Non bisogna però dimenticare come il sostegno al Proceso sia relativo solo alle prime fasi, e come lo scrittore ne abbia preso le distanze non appena mostrò il suo volto sanguinario. Inoltre, con il ritorno della democrazia, celebrò la vittoria del radicale Raúl Alfonsín (1927 – 2009) alle presidenziali del 1983, in una sorta di ritorno di fiamma di alcune posizioni giovanili. Come rileva Vargas Llosa,

 

«È vero che, quando Borges chiamò “caballeros” i membri della giunta militare, e si recò a prendere il the con loro alla Casa Rosada, erano solo gli inizi, prima che la repressione raggiungesse le dimensioni vertiginose che avrà in seguito. Più tardi, soprattutto a partire dalle tensioni con il Cile sul canale del Beagle, prese le distanze dal regime militare e lo criticò alacremente, anche se questa presa di distanza fu tardiva, e non abbastanza diafana da cancellare il disagio tremendo che causò non solo ai suoi nemici, ma anche ai suoi entusiasti ammiratori (come colui che scrive) […]».[30]

 

In generale, va rilevato come l’individualismo di Borges non gli abbia impedito di nutrire un profondo e radicato scetticismo sulle possibilità della democrazia in Argentina e, più in generale, nel Sud America. Riporta sempre Vargas Llosa che

 

«[…] la sua adesione alla democrazia non solo fu cauta ma anche marcata dallo scetticismo che meritavano il suo paese e l’America Latina. Scherzava solo in parte quando disse che la democrazia è un abuso di statistica, o quando a volte si domandava se gli argentini, i latinoamericani, “meritassero” il sistema democratico. Nel segreto del suo intimo era chiaro che rispondesse di no, che la democrazia era un dono di quei paesi antichi e lontani, che lui amava tanto, come Inghilterra e Svizzera, però difficilmente acclimatabile in questi paesi […]»[31]

 

Anche lo scetticismo sull’effettiva esistenza del libero arbitrio discosta Borges dalle concezioni liberali sul tema:

 

«Uno sente che l’Universo risponde a un disegno. Le cose non sono assolutamente arbitrarie: ci sono quattro stazioni, la nostra vita passa per delle tappe: nascita, infanzia, giovinezza…potrebbero essere indizi del fatto che c’è una trama, che questo mondo non è caotico ma labirintico. È come il libero arbitrio. Probabilmente non esiste, però uno non può pensare che in questo momento non è libero, giusto? »[32]

 

Quello di Borges è insomma un pensiero politico complesso e sfaccettato, non incasellabile in una definizione predefinita e che subisce delle mutazioni nel corso degli anni. Pur avendo affinità sia col liberalismo che con il conservatorismo, non è del tutto riducibile ad una di queste visioni del mondo:

 

«[…] mentre il suo individualismo lo avvicina alle idee liberali, il suo profondo scetticismo di fronte davanti a qualunque teoria generale e il suo disprezzo “per la massa” non gli permettono di abbracciare nessuna utopia particolare, neppure quella liberale. Se si dovesse quindi etichettare Borges in politica, si potrebbero utilizzare le parole che usò George Orwell per definire sé stesso: un conservatore anarchico».[33]

 

Inoltre, Borges non era alieno agli avvenimenti che lo circondavano, avvenimenti che hanno provocato ad una certa evoluzione nel suo pensiero:

 

«Borges è nato nel mezzo dell’età dell’oro argentina, quando il paese era tra i più prosperi al mondo, ma è anche stato testimone della sua discesa nella violenza e nel fallimento economico. Questo può spiegare le sue erratiche simpatie politiche nel corso della sua vita. Nella sua gioventù era un entusiasta sostenitore della democrazia liberale e un nazionalista progressista. […] Negli anni ’30 divenne un critico del fascismo in Argentina e del nazismo in Europa, e ha sostenuto gli Alleati contro Hitler durante la Seconda guerra mondiale; si è opposto al regime autoritario di Perón negli anni ’40 e ’50, ma dato che il peronismo ha continuato a dominare la politica argentina dopo la caduta del suo leader nel 1955, il suo anti-peronismo lo ha portato ad adottare posizioni conservatrici e, per un certo periodo, antidemocratiche, che includono il sostegno alla giunta militare che ha governato l’Argentina negli anni ’70. […] Però, la guerra delle Falkland/Malvinas del 1982 e la conseguente caduta del regime militare hanno provocato in lui un cambiamento. Quando le atrocità commesse durante la Guerra sporca contro i guerriglieri marxisti vennero alla luce, Borges ha pubblicamente denunciato i “desaparecidos” e la tortura degli oppositori, chiedendo che gli ufficiali colpevoli venissero puniti. Ha apprezzato il ritorno della democrazia nel 1983, e nei suoi ultimi anni si è descritto come un pacifista e un “anarchico inoffensivo” che sperava nella scomparsa degli Stati e delle frontiere».[34]

 

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