Rifugiati

Per tre minuti il Paese si fermò

Il formidabile slancio di generosità verso gli ucraini ci ricorda il moto di solidarietà per gli ungheresi nel 1956 – La storica Tiphaine Robert: «Alla base un forte consenso nazionale che segnò una netta rottura nella politica federale dell’asilo»
Francesco Pellegrinelli
21.03.2022 06:00

Tra i 200 mila ungheresi che fuggirono dai carri armati sovietici nell’ottobre del ’56 c’era anche Agota Kristov. La scrittrice naturalizzata svizzera venne accolta nel nostro Paese durante i mesi della repressione russa.

Ne parla, di sponda, Tiphaine Robert, storica (Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica e UniDistance), nel suo «Des migrants et des revenants». Nell’introduzione al testo, Robert cita alcuni passaggi di un romanzo della Kristov. Pagine che raccontano di personaggi fittizi, Jean e Sandor , entrambi rifugiati ungheresi del ’56 confrontati, in Svizzera, con una quotidianità disordinata, difficile, grigia e mal spesa: «Sono passi che smontano il mito del buon rifugiato ungherese. Sandor e Jean non sono esiliati modello», commenta Robert.

«Un dovere morale»

Le campane, in Svizzera, suonarono il 20 novembre 1956 alle 11.25. Seguirono tre minuti di silenzio che fermarono il Paese. La Svizzera - tutta la Svizzera - si scoprì solidale. «Fu un gesto unico, di grande partecipazione collettiva», racconta al CdT Tiphaine Robert.

Il 20 novembre 1956, una decina di giorni dopo la fine della rivolta ungherese duramente repressa dalle truppe sovietiche, il nostro Paese, con un gesto di solidarietà inedito, testimoniò la sua vicinanza al popolo ungherese, schiacciato dai carri armati russi: «Rilevante il fatto che allora il consenso in Svizzera fu trasversale». Dall’alto al basso, dallo Stato alla Nazione. «In poco tempo, le iniziative per accogliere i rigufiati si moltiplicarono». La popolazione si mobilitò per offrire una stanza, un letto, un aiuto. «La Svizzera fu il Paese che in assoluto accolse in proporzione il maggior numero di rifugiati ungheresi. Il Consiglio federale presentò questa emergenza come «un dovere morale». All’epoca, spiega ancora Robert, in Svizzera si aveva l’impressione di essere stati risparmiati dalla Seconda Guerra mondiale. In materia di politica di asilo, la scelta rappresentava comunque una rottura rispetto al passato: «Le autorità decisero che doveva trattarsi di una “accoglienza differenziata”, nel senso che, ai rifugiati ungheresi, veniva proposto un trattamento speciale». Qualcosa di simile a quanto sta accadendo oggi con gli ucraini. All’epoca, però, il Consiglio federale fissò un contingente di 10 mila profughi, che venne superato a 13 mila. «Prima del ’56 la politica di asilo svizzera era molto più restrittiva». L’indignazione di fronte all’atto di forza russo spinse le autorità ad allentare le maglie della procedura per la richiesta di asilo. «In filigrana, poi, c’era anche il tentativo di ricostruire l’immagine di un Paese criticato per la sua chiusura verso i rifugiati ebrei durante la Seconda Guerra mondiale».

L'anticomunismo in Svizzera è quasi una dottrina di Stato, e assieme allo spirito antirusso, ha avuto un ruolo come leva
Tiphaine Robert, storica

L’anticomunismo svizzero

Una politica riparatrice, dunque, sostenuta anche da alcuni nuovi strumenti del Diritto internazionale umanitario, come la ratifica della Convenzione di Ginevra del 1951. «Un accordo che presenta un principio lodevole», osserva Robert. «L’impossibilità di respingere le persone al confine, come invece fece la Svizzera durante la Seconda Guerra mondiale con gli ebrei». Tra le leve di questa partecipazione condivisa in maniera trasversale dalla popolazione, non bisogna poi dimenticare il forte spirito antisovietico: «L’anticomunismo è quasi una dottrina di Stato e lo spirito antirusso è molto diffuso nella società svizzera».

Le attese della popolazione

Anche la politica di integrazione degli ungheresi segnò un netto cambio di passo rispetto alle pratiche in uso con i migranti e i rifugiati accolti in precedenza: «Da una parte c’erano i benvenuti ungheresi, dall’altra gli stagionali che si preferiva non integrare, per esempio, negando loro il ricongiungimento familiare».

Come oggi per gli ucraini, anche all’epoca le autorità aprirono le porte del mercato del lavoro: «Gli ungheresi avevano un permesso valido un anno, rinnovabile. Non solo potevano lavorare. Dovevano lavorare». Si chiedeva loro, insomma, di diventare indipendenti economicamente più velocemente possibile, «anche perché il lavoro non mancava». Il problema? «Non sempre il profilo dei nuovi arrivati corrispondeva a quanto richiesto. C’era anche chi si dimostrava riluttante a svolgere il lavoro assegnatogli». Ma, soprattutto, spiega ancora Robert, la popolazione pensava di accogliere donne e bambini o, tuttalpiù, i valorosi combattenti di Budapest. E invece, si ritrovarono con una maggioranza di giovani uomini che non avevano partecipato ai combattimenti, arrivati in Svizzera quasi per caso e che sognavano gli Stati Uniti». In definitiva, delle 13 mila persone accolte nel ’56 in Svizzera, «fino al ’63, duemila scelsero la via del ritorno in patria. Altri 2.600, invece, partirono per altre destinazioni, Stati Uniti, Canada, Australia». La volontà dell’autorità di superare le piccole (e le grandi) polemiche, però, era forte, spiega Robert. «Anche i messaggi della stampa andavano in questa direzione». Pazienza e comprensione erano le parole d’ordine.

Solamente più tardi, negli anni '80-'90, la politica diede forma al mito del buon rifugiato ungherese

Il mito del buon rifugiato

Parole di un consenso costruito anche contro quello che non sempre funzionava. E qui torniamo a Jean e Sandor - i personaggi di Kristov - e a ciò che le fonti storiche faticano a rilevare: «La costruzione dell’immagine positiva dell’esiliato ungherese in Svizzera risale agli anni ’80 e ’90, molto più tardi rispetto al ’56. Di fronte all’arrivo di persone, spesso originarie dell’Africa, che fuggono altri tipi di conflitto rispetto a quelli della guerra fredda, una certa politica promotrice di restrizioni in materia di asilo strumentalizza il ’56. E traccia una linea artificiale tra il “vero” rifugiato della guerra fredda e il preteso “falso” rifugiato». È proprio in questo momento, spiega Robert, che nasce il mito del rifugiato modello: «Un mito che, inevitabilmente, pone gli “altri profughi” su un piano distinto».

Ci sono molte analogie con quanto sta accadendo in Ucraina, osserva Robert. «Innanzitutto, come nel ’56, la popolazione ha risposto con grande indignazione verso l’aggressione russa. C’è poi lo slancio di solidarietà, mentre sul fronte politico, osserviamo la medesima volontà di riconoscere uno statuto di rifugiato speciale». Ci sono tuttavia alcune differenze: «Nel ’56 non ci fu la guerra e i rifugiati si fermarono, si fa per dire, a 200 mila».

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