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Tigray, l’attivista Gebremedhin: “Sanzionare Addis Abeba”

Intervista alla Dire mentre continuano gli sforzi per i negoziati di pace

Pubblicato:12-08-2022 19:02
Ultimo aggiornamento:12-08-2022 19:02
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ROMA – “Delegati dell’Unione Europea e degli Stati Uniti si sono recati in Tigray la settimana scorsa e hanno riconosciuto la necessità di mettere fine all’assedio a cui è sottoposta la regione, senza però prendere alcuna misura seria per spingere il governo etiope a sbloccare la situazione. Per arrivare a dei negoziati di pace sono necessari provvedimenti che davvero convincano il governo di Addis Abeba a intraprenderli, come a esempio delle sanzioni mirate”. A parlare è Meaza Gebremedhin, ricercatrice in relazioni internazionali e attivista per la difesa dei diritti umani nata in Tigray ma di base a Washington, dove studia dal 2019. L’agenzia Dire la intervista mentre proseguono gli sforzi per organizzare negoziati di pace fra l’esecutivo etiope e le autorità tigrine, guidate dal Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf).

Le due fazioni si sono dette disponibili a negoziato lo scorso giugno, 19 mesi dopo l’inizio di un conflitto che l’attivista, molto nota fra la diaspora tigrina nel mondo, definisce un “genocidio perpetrato dall’esercito etiope, insieme alle forze armate eritree e alle milizie della regione Amhara”. Il numero delle persone rimaste uccise nel conflitto non è noto, anche a causa del blocco alle telecomunicazioni e all’accesso alla stampa imposti dal governo etiope. Gebremedhin denuncia “150mila vittime civili”, rilanciando in parte dati segnalati di recente anche da alcuni ricercatori dell’Università belga di Gent. Gli esperti dell’ateneo fiammingo hanno calcolato fra 150 e 200mila vittime causate dalla carestia provocata dal conflitto, fra 50 e 100mila morti causati dai combattimenti e poi circa 100mila ulteriori decessi determinati dal mancato accesso al sistema sanitario.

La situazione che si osserva attualmente nella regione, situata nel nord dell’Etiopia, al confine con il Sudan a ovest e con l’Eritrea a est, è segnata da una tregua umanitaria che è stata proclamata a marzo e che nel suo complesso regge tuttora.


Tacciono le armi ma il Tigray è ancora sostanzialmente sotto assedio, non arrivano aiuti umanitari e beni di prima necessità come medicine salva vita, e la gente continua a morire di fame”, denuncia però Gebremedhin. “In queste condizioni non sembra possibile poter parlare di negoziati di pace, nonostante le intenzioni e gli sforzi in questo senso fatti sia dal Tplf che da tutto il popolo tigrino”.

Nel suo ultimo report sulla situazione nel Tigray, pubblicato in settimana, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari (Ohchr) comunica che da giugno sono ripresi gli ingressi dei camion carichi di aiuti umanitari nella regione – fino a 500 al giorno –, attraverso un corridoio dall’Afar. L’ente dell’Onu mette però in guardia sulla mancanza di carburante che “ostacola” la consegna del materiale alla popolazione. L’Ohchr conferma poi che in Tigray continuano a essere sospesi tutti i servizi pubblici, compresi quelli bancari e i trasporti. Il tema è stato al centro della visita dei diplomatici di Usa e Ue dei giorni scorsi, che nel capoluogo Mekelle, dove si sono recati dopo essere stati ad Addis Abeba, hanno incontrato anche la massima autorità tigrina, Debretsion Gebremichael.

“Hanno fatto appello al governo etiope affinché tutte le funzioni essenziali sospese vengano ristabilite, ma poi nient’altro”, ribadisce la ricercatrice, che è nata e ha studiato in Tigray ma che ha vissuto in diverse aree del Paese, compresa la capitale. “La comunità internazionale potrebbe fare la differenza ma per ora abbiamo visto solo false promesse, quando bisognerebbe imporre misure concrete, come le sanzioni”. Una mancanza di azione che colpisce ancora di più se paragonata all’operato dei maggiori Paesi occidentali nel contesto ucraino, a partire dalle numerose penalità economiche e finanziarie imposte a Mosca.

“L’atteggiamento delle grandi potenze verso l’Etiopia è innegabilmente diverso dalla postura impiegata nello scenario est europeo, al punto che viene da chiedersi se davvero i grandi della terra abbiano a cuore stato di diritto e diritti umani”, scandisce l’attivista. “Sono contenta che il popolo ucraino stia ricevendo un grande sostengo ma al tempo stesso rilevo una disparità di attenzione incredibile. E’ una sofferenza e uno shock per me che mi occupo di relazioni internazionali e che mi impegno per la tutela dei diritti di tutti- continua Gebremichael- . Quello che studio rimane solo sulla carta”.

L’attivista approfondisce il suo percorso personale e afferma di “essere partita per gli Usa con l’aspirazione di tornare poi in Etiopia per contribuire allo sviluppo del Paese, a partire dai temi dei diritti di genere, dello sradicamento della povertà e dell’empowerment delle donne”. Desideri, prosegue la ricercatrice, “che si sono schiantati sulla realtà del genocidio in corso, con centinaia di tigrini nei centri di detenzioni nelle zone del Tigray occidentale e migliaia di ragazze violentate durante le ostilità”.

Un Paese, l’Etiopia dopo l’inizio del conflitto, che non sembra neanche quello lasciato tre anni fa, nella visione dell’attivista. “L’obiettivo di Abiy Ahmed del resto- evidenzia la ricercatrice- è quello di modificare nel profondo l’assetto di federazione su base comunitaria che vige ora nel Paese e che tutela tutte le diverse nazionalità etiopi”. La prospettiva, chiosa l’attivista, “è quella di giungere a uno stato unitario che non riconosce le peculiarità che caratterizzano le varie regioni e che spinge verso l’assimilazione forzata in un’unica identità”.

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