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La crisi del Canale di Suez taglia fuori dal mercato i porti italiani e triplica il costo del trasporto delle merci

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Documenti - La crisi del Canale di Suez taglia fuori dal mercato i porti italiani e triplica il costo del trasporto delle merci

1 Febbraio 2024

Dal canale di Suez passa il 12 per cento del traffico mercantile mondiale e il 40 per cento di quello nazionale

Dal 9 dicembre 2023, dopo che i ribelli Houthi dello Yemen, schierandosi al fianco di Hamas e dell'”asse della resistenza” guidato dall’Iran, hanno annunciato l’intenzione di attaccare tutte le navi dirette in Israele senza fare distinzioni sulla loro nazionalità, diversi armatori, in maniera prudenziale e precauzionale, hanno sospeso la rotta Golfo di Aden-Canale di Suez allungando il viaggio di 6.000 chilometri intorno al “Capo di Buona Speranza” con conseguenti significativi aumenti dei costi.

Quando nel marzo del 2021 la Ever Given è rimasta incagliata nel canale di Suez impedendo il transito di tutte le navi in circolazione per sei giorni, è stato calcolato che le perdite economiche sono state di circa 9 miliardi di dollari al giorno (circa 7,5 miliardi di euro).

Il Golfo di Aden è già noto da anni per essere una zona di transito complicata per il traffico navale a causa della costante minaccia di pirateria che si è provata a rimuovere con missioni internazionali che hanno visto coinvolta anche la nostra Marina Militare.

Nomen est omen

Bab el-Mandeb, il nome dello stretto tra Gibuti e Yemen che fa da imbuto tra il Mar Rosso ed il Golfo di Aden significa letteralmente “Porta del lamento funebre”. “Nomen est omen” ovvero di nome e di fatto perché marca una delle rotte critiche per il trasporto di petrolio, materie prime, semilavorati e merci tra l’Oriente e l’Europa rivestendo una importanza vitale per un Paese quale l’Italia che è naturalmente disteso nel Mar Mediterraneo.

Gibuti e Yemen sembrano lontani dalla nostra quotidianità ma, in realtà, non è così. Quando lo scorso dicembre una nave cargo norvegese, la Strinda, è stata centrata da un missile da crociera antinave lanciato dal territorio yemenita controllato dalle milizie Houthi, in pochi in Italia sapevano che quell’attacco ci stava arrecando un danno diretto; infatti, la nave norvegese trasportava olio vegetale e biocarburanti caricati in Malesia e destinati alle bioraffinerie dell’Eni a porto Marghera.

Perché l’attacco? Evidentemente perché il suo ruolino di marcia prevedeva il ritiro di un carico nel porto di Ashdod, in Israele. Questa destinazione secondaria ha reso la nave Strinda, agli occhi delle milizie Houthi, un bersaglio legittimo per colpire gli interessi israeliani.

Gli effetti sull’economia

Gli attacchi al traffico mercantile nell’area si sono moltiplicati e, per gli armatori che per maggiore sicurezza hanno deciso di circumnavigare l’Africa, i tempi di transito per le rotte da Asia a Europa sono passati da sette a venti giorni, provocando una impennata dei costi ed effetti nefasti per la filiera produttiva europea con il fermo di alcune attività industriali per assenza di materiali.

Per essere più chiari, a causa degli attacchi Houthi i prezzi per un container standard, da 40 piedi, sulla tratta Shanghai-Genova sono impennati passando repentinamente da circa 1.400 a oltre 6.000 dollari.

L’Italia dipende dal canale di Suez per il 40% del suo import-export e questa crisi rischia di mettere fuori mercato una parte del “Made in Italy” per non parlare del danno strutturale che stanno già subendo i nostri porti che hanno visto crollare i volumi di merci movimentate a seguito del dirottamento delle stesse verso i porti atlantici. A subire gli effetti degli attacchi Houthi non è solo il nostro Paese in quanto, secondo le stime del settore, dal canale di Suez transita circa il 12 per cento del commercio globale e il 30 per cento del traffico di container globale.

Siamo di fronte a un’ulteriore nota negativa che si aggiunge ai danni prodotti dalla recente pandemia e dal conflitto in Ucraina.

Se Suez piange Panama non ride

Non è solo Bab el-Mandeb però a preoccupare, anche altre rotte sono a rischio e con esse lo “statu quo”, locuzione latina che significa letteralmente stato delle cose ovvero situazione attuale, che appunto è in divenire. Il Canale di Panama è una delle vie navigabili più importanti al mondo che consente alle navi di attraversare l’istmo di Panama e di collegare velocemente l’Oceano Atlantico con l’Oceano Pacifico. Qualsiasi evento significativo o cambiamento in questo canale ha inevitabilmente impatto sul trasporto marittimo globale, come appunto sta avvenendo in questi giorni a causa della straordinaria siccità che ha colpito l’area di Panama causando un ridotto afflusso di acqua alle chiuse del canale, con conseguente significativa riduzione del traffico marittimo commerciale. Sono transitate 25 navi al giorno a novembre dello scorso anno e caleranno a 18 navi a partire dal prossimo febbraio, è la metà delle imbarcazioni che normalmente transitano per il canale di Panama.

Fermare i conflitti

Secondo il report The Emergency Watchlist 2024, elaborato dal Comitato internazionale della Croce Rossa, sono 20 gli Stati in cui sono presenti conflitti e che nei prossimi 12 mesi hanno o potrebbero avere bisogno di sostegno umanitario. Quanti sono in condizioni di farlo devono fermare questi tutti conflitti.

Il Papa nel discorso tenuto l’8 gennaio 2024 al Corpo diplomatico ha ricordato che «Il mondo è attraversato da un crescente numero di conflitti che lentamente trasformano quella che ho più volte definito terza guerra mondiale a pezzi in un vero e proprio conflitto globale» e, ancora una volta, ha affermato «Ribadisco il mio appello a tutte le parti coinvolte per un cessate il fuoco su tutti i fronti, incluso il Libano».

Recentemente nel corso dell’incontro che si è svolto a Bangkok tra l’alto diplomatico cinese Wang Yi e il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan, gli Stati Uniti hanno proposto alla Cina di esercitare un’influenza nei confronti dell’Iran per porre fine agli attacchi delle milizie ribelli yemenite Houthi contro le navi commerciali nel Mar Rosso e di lavorare per promuovere il potenziamento delle relazioni diplomatiche tra i due paesi in settori chiave.

L’auspicio di tutti noi è che prevalga il buon senso e le diplomazie impegnate nella gestione delle crisi in atto trovino le condizioni per ristabilire il necessario equilibrio mondiale.

Piano nazionale di ripresa e resilienza e privatizzazioni

L’Italia ha accumulato un debito pubblico di 2.762 miliardi di euro, una cifra monstre, pari a circa il 145% del PIL italiano. Il debito pubblico è per l’economia italiana uno dei problemi più gravi. È irresponsabile non spiegare ai cittadini la serietà e la insostenibilità della situazione e, soprattutto, non mettere in campo serie politiche di sviluppo favorendo la nascita di “campioni nazionali” nel campo dell’industria, dei servizi e del terziario e, ove esistenti, come ad esempio nel caso delle Ferrovie dello Stato italiane, assicurarne il loro consolidamento.

A più riprese abbiamo sostenuto, e continueremo a sostenerlo, che le risorse del Pnrr, se opportunamente utilizzate, anche per colmare il gap infrastrutturale fra il sud e il nord del Paese, possono generare un nuovo miracolo economico. Sul corretto e puntuale utilizzo delle risorse si dovrebbero concentrare Governo e opposizione per tutelare gli interessi generali del Paese. Il 2024 è

l’anno della verità perché è l’anno dei cantieri, delle nuove opere, e, conseguentemente, dello sviluppo dell’occupazione e dell’economia.

Atteso che in passato il ricorso alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni non ha prodotto i risultati attesi ma ha determinato effetti negativi sull’occupazione, sui salari e ha ridotto il profilo industriale del Paese, riteniamo che qualsiasi ipotesi in tal senso vada discussa preventivamente con il sindacato.

Nella nota di aggiornamento del DEF (Documento di Economia e Finanza) si legge che il debito italiano da qui al 2026 non scenderà in modo significativo e continueremo a pagare circa 76 miliardi all’anno di interessi passivi sul nostro debito pubblico. Bisogna fare tesoro degli errori del passato e non ripeterli. Non è certo con le ventilate ulteriori privatizzazioni, per un valore di 20 miliardi da qui al 2026, che possiamo venirne fuori.

La possibile privatizzazione di società del Gruppo Ferrovie dello Stato non ridurrebbe il debito pubblico. La separazione o la fuoriuscita di società che lo compongono, inoltre, sarebbe una iattura per il Paese, per le lavoratrici e i lavoratori del Gruppo oltre che per il sistema dei trasporti italiano.

Su Ita Airways è tempo di decidere

La scelta della Commissione Ue di non decidere sulla partnership Ita-Lufthansa è incomprensibile perché le criticità che erano state segnalate nei mesi scorsi sono state puntualmente superate compresa la cessione di un pacchetto di slot a Milano Linate.

Pur ritenendo legittime le richieste di ulteriore approfondimento della Commissione, non si può sottacere che Ita, nelle condizioni attuali, da compagnia bonsai, sta andando incontro a una progressiva perdita di valore con ripercussioni negative inevitabili sulla tenuta economica dell’azienda stessa e dell’intera filiera.

Il mercato non aspetta. Nel 2023, per la prima volta negli aeroporti italiani si è sfiorata la quota di 200 milioni di passeggeri. Più si rallenta lo sviluppo previsto dal piano industriale anche attraverso l’acquisizione di nuovi aeromobili, più l’azienda rimane nelle attuali condizioni e più aumenta la probabilità di un incremento dei prezzi dei biglietti, come conseguenza della riduzione dei posti offerti. Senza il partner industriale Lufthansa, inoltre, Ita si presenterà da sola a fronteggiare la stagione estiva, e non potrà cogliere appieno le opportunità che offre il periodo più redditizio dell’anno per una compagnia aerea.

Pertanto confidiamo che la ulteriore valutazione da parte della Commissione sia tempestiva e giunga prima del termine di scadenza dell’indagine previsto il 6 giugno, per garantire la sopravvivenza dell’azienda stessa sul mercato, la stabilità occupazionale di lavoratrici e lavoratori, e, in una fase immediatamente successiva, il reintegro delle risorse in cassa integrazione e che attendono, da anni, di rientrare.

Sempre più lavoratrici e  lavoratori scelgono la Fit-Cisl

Anche nell’anno che si è appena concluso sempre più lavoratrici e lavoratori dei trasporti, dell’ambiente e dei servizi hanno scelto la Fit-Cisl portando l’Organizzazione a + 6.057 lavoratrici e lavoratori, pari a un + 4,23%, rispetto al 2022.

Per questo importante risultato raggiunto ringrazio, anche a nome della Segreteria Nazionale, dello Staff e dei dirigenti nazionali, tutte le attiviste e tutti gli attivisti, le delegate e i delegati, le Segreterie di Presidio, le Segreterie Regionali le componenti e i componenti dei Consigli Generali e dei Comitati Esecutivi a tutti i livelli della Fit-Cisl.

È grazie ai risultati contrattuali e negoziali ottenuti e al costante impegno delle proprie donne e dei propri uomini che la Fit-Cisl continua ad aumentare i suoi iscritti e, conseguentemente, la propria rappresentatività, confermandosi così primo sindacato nella maggioranza delle aziende dei trasporti, dell’ambiente e dei servizi.

L’impegno individuale e collettivo non mancherà mai perché anche questo 2024 ci veda “crescere con trasporto sempre da protagonisti” rappresentando i diritti e gli interessi legittimi delle lavoratrici, dei lavoratori e del Paese in cui abbiamo la fortuna di vivere.

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