Il ministro Trenta: «Migranti, con il bel tempo tornerà l’allarme sbarchi»

Il ministro Trenta: «Migranti, con il bel tempo tornerà l’allarme sbarchi»
di Cristiana Mangani
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Mercoledì 27 Febbraio 2019, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 21:51
L’incontro con il suo omologo alla Difesa, il ministro Kalia Moutari, con il presidente della Repubblica Mahamodou Issoufou, ma soprattutto con i militari italiani della missione Misin: 106 uomini che hanno da poco concluso la prima parte di addestramento e di formazione delle forze armate nigerine. Lo stesso gruppo di esperti che fa parte di quella missione, mai veramente decollata. Il ministro Elisabetta Trenta è rientrata da una visita che considera importante per dare battaglia al traffico di armi e a quello di esseri umani.

Ministro, la nostra missione in Niger ha avuto diverse difficoltà. Ostacolata dalla Francia, ma anche da alcuni membri del Governo locale. È cambiato qualcosa nei rapporti con il paese africano?
«È vero, la missione aveva subito uno stallo, ma non perché ostacolata dalla Francia, bensì per un errore di approccio del precedente governo italiano. Quando mi sono insediata alla Difesa, ho riavviato il dialogo, più in linea con le esigenze delle autorità nigerine, e siamo riusciti a riprendere la situazione».

Era previsto che andassero 470 uomini, in che modo l’Italia sta intervenendo per aiutare il Niger a gestire i flussi migratori?
«Siamo lì per la formazione e l’addestramento delle forze armate, affinché possano controllare i traffici locali, soprattutto i traffici di esseri umani. C’è un altro Mediterraneo, purtroppo, ed è il deserto del Sahara. I migranti seguono questa rotta attraversando il Niger e chi ce la fa arriva in Libia, prima di imbarcarsi verso le nostre coste. Siamo qui per evitare che questo accada».

In che modo?
«L’Africa va aiutata, non sfruttata. E prima di tutto deve essere l’Ue a farlo».

Il Niger, come la Libia, lamentano con il blocco delle partenze degli immigrati, la mancanza di guadagni, quali occasioni di sviluppo stiamo offrendo all’economia locale? 
«È proprio questo il punto, parliamo di Paesi in estrema difficoltà che non si possono mettere sullo stesso piano. In queste aree la comunità globale deve lavorare in sintonia sulla scia delle richieste avanzate dalle autorità locali. Le ingerenze non hanno mai aiutato, anzi, peggiorano solo le cose».

Di recente, il Niger, ma anche il Mali e la Somalia, sono tornate sotto l’aggressione della jihad, quali rischi corre l’Italia?
«La lotta al terrorismo resta una priorità, in Africa come in Medio Oriente. In questo senso, siamo impegnati in ambito Nato in diversi teatri».

Dopo la scelta di ritirare i soldati dall’Afghanistan, come verranno riviste le missioni militari?
«Per quanto riguarda l’Afghanistan ho avviato una pianificazione tecnica come atto di responsabilità soprattutto verso i nostri militari, alla luce di un disimpegno americano, che compone gran parte del contingente Nato nel Paese. Detto ciò è evidente che ogni decisione sarà presa di concerto con gli alleati, ma occorre anche iniziare a capire che le missioni hanno un inizio e hanno una fine».

Cosa sta succedendo in Libia? Il successo militare nei territori del sud del generale Khalifa Haftar finirà con l’agevolare gli interessi francesi? 
«In Libia l’Italia sta fornendo un sostegno alla popolazione attraverso un ospedale da campo a Misurata, allo stesso tempo riteniamo che sia importante dialogare con tutti gli attori rappresentativi e, soprattutto, che il processo di pacificazione sia intralibico ed inclusivo». 

Esiste il rischio che, con il bel tempo, ricomincino ad arrivare i barconi? Non stiamo sottovalutando il pericolo?
«Il rischio c’è, per questo occorre fare in modo che l’Operazione Sophia resti in vita e a guida italiana, come ha di recente valutato non un politico, ma un tecnico di altissimo spessore quale il capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Girardelli. Le do un dato: negli ultimi 7 mesi solo 106 migranti sono stati soccorsi da Sophia, mentre ben 13mila dalle autorità libiche, proprio grazie alla formazione fatta dall’Operazione. Senza questa missione li avremmo avuti sulle nostre coste e, in un certo senso, seppur in forme diverse, è quello che stiamo facendo in Niger: formare le Forze armate locali per fare in modo che sappiano controllare autonomamente il proprio territorio, che è quattro volte più vasto dell’Italia».

Sul mantenimento di Sophia non tutti nel Governo sembrano essere d’accordo.
«Va certamente modificata. Per noi è fondamentale cambiare la regola del porto di sbarco. Non è accettabile che l’Italia si faccia carico da sola del problema dei migranti, che è e resta un problema europeo».

L’Operazione Strade sicure verrà rinnovata, in che modo i militari contribuiranno ad aiutare una città come Roma?
«Qui devo darle una notizia: la maggioranza degli uomini, a differenza di quanto si crede, sono impiegati proprio in Italia attraverso l’operazione Strade Sicure: sono più di 7mila soldati, in una missione interna su cui puntiamo molto. Altri, circa 6mila, sono invece impiegati all’estero per la stabilizzazione delle aree di crisi. Riguardo a Roma, così come per altri Comuni, da parte della Difesa la massima disponibilità a dare il proprio contributo. Abbiamo corpi super-specializzati e siamo ben felici di dare una mano a chi è in difficoltà».
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