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Addio a Lee Kun-hee, l'uomo che rese Samsung un colosso planetario

Lee Kun-Hee, presidente di Samsung, è morto a 78 anni (afp)
Il presidente del gruppo coreano aveva 78 anni. L'annuncio dell'azienda: "Piangiamo un visionario, la sua eredità sarà eterna". Con la sua morte si apre una fase complessa per la successione
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NANJING – “Cambiate tutto, tranne la moglie e i figli”. Il momento fondativo nella mitologia di Samsung è un ritiro aziendale in un hotel di lusso di Francoforte, nel 1993. Sei anni prima Lee Kun-hee, minore di tre fratelli, aveva ereditato le redini dell’azienda fondata dal padre.

Un marchio conosciuto soprattutto per televisori a basso costo, che lui voleva sollevare al top della gamma. Di fronte al management tutto, schierato per ore in religioso silenzio, Lee teorizzò quel senso di urgenza, di sfida per la sopravvivenza, che avrebbe fatto di Samsung un campione hi-tech globale e che sopravvive ancora oggi.

Più che un campione, il campione: l’azienda coreana è numero uno al mondo nelle industrie che plasmano il nostro presente, prima per smartphone venduti davanti ad Apple, primo produttore di microprocessori, con rami che si estendono dalla cantieristica navale alla finanza. I nuovi assunti vengono ancora portati a visitare la riproduzione di quella sala Francoforte, ricreata nel quartier generale di Seul con mobili importati dalla Germania. 

Lee Kun-hee, per tutti il presidente, è morto domenica a 78 anni. Presidente lo era ancora, nonostante l’infarto che sei anni fa lo aveva ridotto allo stato vegetativo, proiettando al vertice della società il figlio. Con lui la Corea del Sud, oltre che il suo uomo più ricco, 20 miliardi di dollari abbondanti di patrimonio, perde soprattutto il simbolo più illustre del suo capitalismo, quello dei grandi gruppi industriali e familiari chiamati “chaebol”. Nel bene, visto che Lee e gli altri sono stati i protagonisti del miracolo che ha trasformato un Paese di agricoltori in una delle economie più avanzate del pianeta. E nel male, perché il potere e l’influenza che hanno accumulato durante il percorso li hanno resi dei giganti intoccabili, al punto da sentirsi spesso e volentieri al di sopra delle leggi e della politica.

I guai di Lee, educato in Giappone e poi negli Stati Uniti, cominciarono nel 2008, quando gli fu formalizzata l’accusa di evasione fiscale.

Si dimise, salvo ottenere due anni dopo la grazia dal presidente e tornare trionfante al vertice della società. Peccato che quel perdono era stato comprato a suon di mazzette. Un rapporto incestuoso con la politica, in particolare il campo conservatore, che si sarebbe riproposto tale e quale per il figlio Lee Jae-yong, oggi vice presidente e guida della società, a sua volta condannato per aver corrotto la presidentessa Park Geun-hye, scandalo che nel 2017 ha terremotato la vita pubblica sudcoreana e portato all’elezione del democratico Moon Jae-in, attuale leader del Paese. 

Quello che oggi è Samsung è il risultato di questa complessa eredità. Per la prima azienda IT per fatturato al mondo, oltre 400 miliardi di dollari di capitalizzazione, gli affari continuano ad andare a gonfie vele. La leadership nel settore dei microprocessori, per citarne solo una, la rende riferimento inaggirabile nella tecnologia chiave dei prossimi anni, cuore del conflitto tra Cina e Stati Uniti. Ma dal punto di vista societario le ombre non si sono diradate.

La promessa del presidente Moon di riformare l’oligopolio familiare dei chaebol, a benefico di regole e concorrenza, è rimasta in larga parte lettera morta. La morte di Lee, che lascia in eredità un significativo pacchetto azionario, aprirà una fase di successione che si annuncia intricata, come la rete di partecipazioni incrociate con cui la famiglia controlla il conglomerato. Mentre progetta il futuro della società Jae-yong, 52 anni, conosciuto in Occidente come Jay Y. Lee, continua a essere inseguito dai procedimenti penali e non è escluso che possa tornare in carcere. Intanto, ha già detto che non passerà il comando dell’azienda ai figli, quarta generazione di Lee.