#ValorePubblico

50 anni di SDA. 50 anni di studi di management (anche) pubblico

Il Presidente Mario Monti alla festa per i 50 anni della SDA ci ha affettuosamente chiamati “scassatori di equilibri consolidati”. E tutti noi ci siamo in qualche modo riconosciuti. Noi, il gruppo di bocconiani che studia le istituzioni pubbliche con le chiavi dell’economia aziendale, allievi di Elio Borgonovi, uno  dei Dean della SDA Bocconi e pioniere degli studi di management pubblico in Italia, siamo consapevoli dell’originalità del nostro sguardo: coi colleghi aziendalisti di impresa difendiamo le specificità della gestione della cosa pubblica mostrando i limiti dell’approccio “fare  come nel privato”; coi colleghi economisti e politologi discutiamo di quanto le policy (e la loro efficacia) siano sovente definite dai dettagli dei modelli di gestione, di cui noi ci occupiamo. Quindi, sì. Scassatori in qualche modo ci si addice: richiama un alto orientamento allo spirito critico e l’estetica del gesto di rottura. Cosa ne pensa il prof. Borgonovi?

RS: A proposito di visioni anticonformiste, quando nel 1971 è stata fondata la SDA Bocconi, la prima scuola di executive education in Italia su modello anglosassone, da subito avete preso le distanze dal modello dominante per un fatto: non Business School, ma School of Management, perché sin dalla sua fondazione SDA Bocconi non si è occupata solo di formare e supportare il management delle imprese ma anche degli enti pubblici. A distanza di 50 anni, quella scelta anticonformista sembra aver anticipato il presente: sostenibilità ambientale, responsabilità sociale di impresa, finanza di impatto, partnership pubblico-privato, tutto ci sembra indicare che la strada è quella che costruisce ponti tra i settori. Da dove viene l’intuizione di costruire una scuola per la classe dirigente non solo delle imprese, ma anche della PA?

 

EB: Viene dal DNA dell’Economia Aziendale, perché l’Economia Aziendale ha sempre sostenuto che gli Istituti, che possono essere pubblici o privati, si differenziano per i fini (economici per le imprese, non economici per le amministrazioni pubbliche, il terzo settore, le famiglie), ma per raggiungere questi fini tutti gli istituti articolano processi di gestione dell’attività economica, ovvero organizzano la loro dimensione aziendale. Proprio l’economia aziendale ci aiuta a comprendere le differenze nei processi di organizzazione, rilevazione e gestione dell’ordine economico degli istituti pubblici, strumentali ai fini pubblici. E sempre l’Economia Aziendale, a differenza delle teorie anglosassoni (e ben prima delle teorie degli stakeholders), ci ricorda che le persone sono soggetti e non fattori produttivi e che le finalità economiche degli istituti non coincidono con la massimizzazione del profitto, che è una condizione di economicità dell’impresa, ma si basano sulla capacità di soddisfazione dei bisogni reali nella società. Tutte cose che in tanti che hanno studiato management senza studiare l’economia aziendale sembrano scoprire adesso. Ma il Management anglosassone nasce come buone pratiche e via via si è formato e consolidato fino a concettualizzare l’unitarietà dell’azione economica e, quindi, i suoi fini. Per questo ci ha messo di più ad arrivare a conclusioni simili. Al contrario, l’Economia Aziendale è una disciplina sociale che nasce nella teoria, con un forte radicamento filosofico e valoriale, alle sue origini certamente meno collegata al mondo della pratica. Noi in SDA abbiamo provato a costruire questo ponte, tra i principi dell’economia aziendale e l’orientamento alla pratica degli studi di management. Allora, come oggi, si studiava e si metteva pratica (questo sì, contributo della tradizione anglosassone): quando alla fine degli anni ’70 primi ‘80 ci fu la legge sui piani di riorganizzazione dei comuni io andavo nei comuni del milanese a insegnare come si potevano fare.

Quindi per me è sempre stato naturale sostenere questa tesi, che da alcuni oggi è considerata anticipatoria. Io mi ero messo solo nel solco dell’economia aziendale.

Allora, la diffidenza verso questo approccio veniva più dall’esterno degli studi economici. Una volta ero ad un convegno sulla PA con giuristi e politologi. Quando cominciai a parlare io, si sentì la voce di un giurista – che si era dimenticato il microfono acceso – dire indignato: “Ma cosa diavolo c’entra un aziendalista con la PA?”.

 

 

RS: Chissà se questo pregiudizio lo abbiamo davvero superato. A me e a molti colleghi è capitato di confrontarci con le contraddizioni del processo di aziendalizzazione nel settore pubblico. E di dover specificare che il nostro modello aziendale applicato alle PA non coincide con la dottrina New Public Management, che pur ha largamente dominato il dibattito e le riforme. Quanta strada abbiamo fatto e quanta ne dobbiamo ancora fare, su questo punto?

 

EB: È stato difficile fare largo al paradigma dell’economia aziendale come chiave di lettura per l’amministrazione pubblica per tre ordini di motivi, tra loro collegati. Il primo è di natura istituzionale: la netta separazione tra diritto pubblico e diritto privato, al contrario di quanto accade nei paesi di common law, ha sempre rinforzato l’idea che i due mondi, dell’impresa e dell’amministrazione pubblica, dovessero viaggiare separati. Il secondo motivo è di natura politica. L’impostazione culturale delle forze politiche in campo negli anni ’80 e ’90 – al contrario di quanto stava accendo all’estero – era molto diffidente e apertamente ostile verso l’applicazione di chiavi di lettura economiche per leggere il funzionamento delle pubbliche amministrazioni. La terza ragione è che quando nel nostro Paese si è reso necessario occuparci anche della sostenibilità economica delle amministrazioni pubbliche il mondo delle multinazionali della consulenza ha cominciato a proporre ricette, soluzioni e strumenti importate da fuori, di matrice anglosassone (New Public Management) con cui siamo stati a lungo confusi.  Quindi noi siamo stati poco legittimati dai giuristi, guardati con diffidenza dalla politica e, infine, sovrapposti ai consulenti che proponevano il mercato come strumento di regolazione nel pubblico. Quando nel ’94 o ’95, ad un corso al San Paolo sui DRG mi permettevo di ricordare che non si potevano cacciare i pazienti, perché il fine resta sempre quello di curare e non di massimizzare i ricavi, sembrava dicessi delle cose strane. Era l’ABC dell’economia aziendale.

 

RS: Eppure non possiamo certo dire di essere stati ininfluenti. A partire dalla Sanità per estenderci a tutta la PA, ormai anche a livello internazionale. Intere generazioni di dirigenti pubblici si sono formate nelle nostre aule in questi 50 anni. Lei che ne ha incontrati e formati più di noi tutti, che ne pensa del ruolo di manager pubblico? È cambiato in questi anni o ci sono delle competenze, dei tratti che restano costitutivi del ruolo nel tempo?

 

In effetti qualcuno ne ho incontrato (risata). Credo qualche migliaio… Secondo me sì, ci sono delle caratteristiche che fanno la differenza tra un manager pubblico e un bravo manager pubblico, oggi come allora. Ma se ieri erano delle ipotesi che ci ispiravano, oggi abbiamo la consapevolezza dell’esperienza

La prima caratteristica è la fiducia nella professionalità. In un mondo dominato dall’idea che per fare carriera nel pubblico serva solo la tessera di partito in tasca, chi invece punta sulla solidità della propria competenza, la consapevolezza delle proprie capacità e uno spiccato spirito di servizio ha possibilità reali di crescere e di fare cose importanti. A distanza di tanti anni, posso dire: ne ho le prove! Certo non è l’unico modo di fare carriera, ma è un modo concretamente possibile. È una scelta di campo individuale per cui non solo c’è spazio, ma anche sempre più bisogno, vista l’instabilità della politica.

La seconda è la capacità di coltivare una visione sistemica, che superi le visioni settoriali e iper-tecniche. E torno al concetto di unità di azienda. Facciamo un esempio: chi si occupa di acquisti, non può pensare che il suo compito sia solo fare la gara. Il suo compito è occuparsi di cosa succede a monte e valle dell’acquisto. Se compro macchinari che poi nessuno sa utilizzare, perché internamente mancano le competenze o l’organizzazione non è pronta, è un problema anche di chi ha comprato, che ha la responsabilità di collocare il suo contributo nel funzionamento di insieme. Oggi mi sembra ci sia più sensibilità su questi temi, forse anche perché le più recenti teorie sulla complessità hanno preso ormai piede. Ma devo anche dire che chi veniva ai nostri corsi 40 anni fa ci riconosce che noi queste cose le dicevamo già allora.

Credo che questi siano due elementi che restano ancora e sempre più validi. Fiducia nella professionalità e sguardo sistemico. Che occorre non perdere di vista soprattutto nei momenti difficili e di maggiore pressione. Credo sia quello che hanno in comune i tanti dirigenti bravi che abbiamo formato e che oggi ricoprono posizioni di responsabilità in Sanità e nella PA tutta.

 

Grazie, Prof, per averci ricordato i fondamentali. E grazie a quanti in questi anni ci hanno dato fiducia affidando a noi la loro formazione e ora offrono il loro contributo nelle istituzioni pubbliche. Buon management pubblico a tutti. Per i prossimi 50 anni ed oltre!

 

 

 

 

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